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La missione di TIM è quella di supportare le Aziende nelle fasi di sviluppo e/o di ristrutturazione, affiancandole nella gestione del cambiamento

Leadership e gestione Hr: il modello Usa e quello cinese a confronto

La pandemia ha focalizzato l’attenzione delle aziende sulle capacità dei leader di adattarsi e di riorganizzare le imprese secondo i nuovi criteri imposti dall’emergenza sanitaria. Le qualità dei leader sono state messe alla prova dall’assenza fisica del management e dalla necessità di gestire il lavoro in remoto. Proprio in questo frangente è interessante valutare quali modelli di leadership si siano rivelati vincenti e come implementarli nella nostra realtà aziendale, rivedendo alcuni aspetti della nostra gestione organizzativa.

 

Ormai il poter lavorare da casa rappresenta un punto di non ritorno al quale nessuna organizzazione e nessun dipendente vorrà rinunciare completamente. Per questo motivo è indispensabile adattarsi a questa nuova modalità lavorativa ibrida, imparando a gestire e a motivare i dipendenti anche da remoto e, allo stesso tempo, sfruttare questo cambiamento per chiederci se effettivamente il nostro modello di leadership funziona o se ha margini di miglioramento. 

Nel contesto è interessante valutare punti di vista differenti, infatti non tutti i paesi adottano modelli di leadership identici e anzi, tra il Nord America e la Cina esistono profonde differenze in qust’area. 

 

Quali sono le principali differenze di leadership fra imprese occidentali e aziende orientali?

 

Lo stile di leadership si fonda sulla cultura di ciascun paese quindi è molto diverso tra Oriente ed Occidente; anche se alla base ogni leadership efficace, orientale o occidentale che sia,  è il sapersi conquistare la fiducia dei propri collaboratori. In Cina, ad esempio, esiste una maggiore distanza gerarchica tra capo e collaboratore e si tende a valutare il lavoro svolto solamente come squadra, senza considerare l’input di ogni membro.  

Al contrario negli Stati Uniti si predilige la cultura individualistica nella quale viene premiato il singolo. Le gerarchie sono molto più appiattite ed in alcune organizzazioni i ruoli poco definiti e flessibili. Quindi il modello USA è costituito da una leadership molto più aperta ed orizzontale mentre il modello cinese è ancora molto piramidale e basato sulla gerarchia. 

 

Negli Stati Uniti la leadership consiste nell’individuare un obiettivo e predisporre le risorse adeguate per raggiungerlo. Il leader in Cina invece è considerato una persona illuminata, con caratteristiche poco comuni, che, spinto da obiettivi non solamente economici, è capace di motivare i propri dipendenti a comportamenti innovativi e di grande impatto. 

 

In Cina la leadership contiene anche un aspetto di modellamento morale che risulta essere assente in Occidente. Molto spesso è proprio nella sfera etica dove si rivelano le virtù dei leader. Egli, con i suoi comportamenti, propone un modello da seguire per i suoi collaboratori. Se tali comportamenti vengono assorbiti ed emulati non è solo merito del leader ma è anche dipendente dal livello di apertura al cambiamento e alla volontà di crescita e apprendimento dei suoi collaboratori. 

Il leader in Cina non è un riferimento prettamente professionale ma ha anche un ruolo di responsabilità verso le famiglie dei suoi collaboratori. Questo è dovuto al fatto che nella cultura cinese c’è minore distanza tra sfera personale e sfera lavorativa. 

 

Nella cultura tradizionale cinese manifestare apertamente dissenso verso il proprio leader o comunicare un feedback negativo ad un collega in presenza di altre persone sono azioni da evitare in quanto il ricevente non può rispondere con i dovuti modi visto che sarebbe un comportamento culturalmente inaccettabile. Inoltre contraddire il proprio capo andrebbe contro il mantenimento della distanza gerarchica. Questo non vuol dire che i cinesi non litighino mai. Nella cultura cinese però discutere è visto come un’attività controversa più che propizia, vedendo il conflitto ed il confronto come una lacerazione delle relazioni sociali, e per questo da evitare.

 

In Occidente e negli Stati Uniti la leadership si è modificata molto negli ultimi anni integrando le risorse interne, e anche spesso esterne all’organizzazione, in un’organizzazione più “lean”.

In molte imprese i rapporti con i dipendenti sono cambiati. Molte aziende da verticalizzate si sono spostate ad un approccio più orizzontale. Sono cresciuti i team di lavoro legati ad un progetto e  le relazioni, sia con la proprietà che con il top management sono molto più diretti e aperti.  

Di conseguenza, anche la figura del leader si è modificata nel tempo. Un tempo essere leader significava essere autoritari. Il leader imponeva la propria mission all’intera azienda, confrontandosi con i suoi collaboratori in modo sporadico e principalmente con il top management.

Le decisioni erano prese in una stanza senza nessun coinvolgimento da parte dei dipendenti che erano informati solo a decisione presa. Oggi il leader deve invece riuscire a creare un insieme di valori culturali condivisi all’interno dell’organizzazione; valori e obiettivi che deve comunicare coinvolgendo maggiormente i propri collaboratori, rendendoli più partecipi e parte attiva delle decisioni aziendali. 

Sebbene i due modelli siano nettamente in contrasto, con un approccio mirato al confronto e alla comunicazione diretta in Occidente, ed una cultura molto più gerarchica e formale in Oriente, si possono trarre delle note positive da entrambe le tipologie di leadership ed adattarle al proprio stile di gestione aziendale. 

Per quanto il modello cinese possa apparire in contrasto con la cultura Occidentale si possono estrapolare dei principi utili, tenendo a mente ad esempio che non sempre il confronto e le discussioni sono per forza migliorative e possono andare a discapito delle relazioni interpersonali dei lavoratori, rendendo per assurdo il processo decisionale più lento e meno efficace. Inoltre l’idea che un leader si senta responsabile non solamente dei lavoratori ma anche delle loro famiglie, è sicuramente un principio sano da considerare.

Proprio questo momento storico, nel quale si stanno rivalutando i diversi modi di lavorare e di gestire al meglio il personale, può essere l’occasione giusta per innovare la metodologia di lavoro aziendale e lo stile di leadership dell’organizzazione. 

La figura di un consulente esterno esperto, in un contesto di cambiamento dell’organizzazione e dello stile di leadership, può essere la risorsa ottimale da inserire all’interno dell’impresa per facilitare il cambiamento e formare il management interno, e farlo senza creare frizioni dato che il leader è incaricato per la gestione del progetto di riorganizzazione ed è destinato a lasciare la gestione ai manager. TIM Management, con il suo ampio network di professionisti selezionati nel tempo ed esperti in ogni settore, può offrire la migliore assistenza, rendendo operative le risorse necessarie in tempi brevissimi.

Il Diversity Management e i vantaggi che assicura all’azienda

In quest’epoca storica stiamo imparando a convivere con la diversità e a vederla non come un limite, bensì come un valore aggiunto. Le imprese degli ultimi anni stanno acquisendo una nuova fisionomia evolvendosi di pari passo con i propri dipendenti, assecondando le loro esigenze e quindi modificando anche la loro cultura.

 

A partire dagli anni’ 80 il mondo del lavoro ha cominciato a cambiare. La presenza femminile è aumentata, ci sono stati cambi demografici, migrazioni, l’aumento dell’età media dei lavoratori, la globalizzazione e l’attenzione sempre maggiore a temi di multiculturalità e disabilità.

 

Questi cambiamenti hanno portato allo scenario socio economico una crescente complessità richiedendo un maggiore sforzo da parte delle imprese per coordinare ed integrare queste diversità al loro interno.

 

Secondo una ricerca LinkedIn i ruoli di “Head of Diversity” sono più che raddoppiati (+107%) nel periodo 2015-2020 e anche in Italia questo trend sta prendendo piede. L’Istat stima che nel 2019 il 20,7% delle imprese abbia adottato una misura non obbligatoria per legge per poter valorizzare e gestire la diversità.

 

Le imprese sono oggi più che mai chiamate a gestire le differenze presenti nella forza lavoro analizzando i fabbisogni di ognuno ed adeguandosi di conseguenza, adattando quindi l’ambiente di lavoro e la cultura aziendale alle esigenze di ogni lavoratore.

 

Gestire la diversità è un buon allenamento per un’azienda per imparare a gestire il cambiamento, perché alla fine è di questo che si tratta; è un cambiamento che spinge l’impresa ad assumere un nuova identità più aperta all’integrazione rispetto a prima, riconoscendo che le persone non rappresentano un insieme omogeneo ed indifferenziato e che non esiste peggior discriminazione che trattare tutti allo stesso modo.

 

Per imparare a gestire la diversità i manager devono sviluppare nuove skills e per questo nasce il Diversity Management. Con questa figura l’azienda transita non occupandosi più della “gestione delle risorse umane” ma alla “gestione consapevole delle diversità delle persone” 

 

Alcuni degli obiettivi di questa nuova funzione sono:

  • la creazione di un contesto lavorativo inclusivo
  • il contrasto deciso a tutte le discriminazioni 
  • impiegare e valorizzare il contributo che ogni soggetto può dare per il perseguimento degli obiettivi aziendali

 

Valorizzare la diversità è un’azione di carattere qualitativo e ha l’obiettivo di creare un ambiente in cui ogni individuo si sente valorizzato, pur mantenendo le proprie peculiarità.

 

Diversity Management: vantaggi e benefici

 

Molti studi hanno dimostrato come l’introduzione di politiche sul diversity management abbiano impattato positivamente la performance aziendale. In uno studio condotto dalla Commissione Europea nel 2003 –  Costi e Benefici della Diversità – sono state analizzate 200 imprese comunitarie e sono emersi diversi benefici comuni alla gran parte di esse.

 

Innanzitutto, l’impatto che queste politiche di gestione hanno sul lavoratore non sono indifferenti. In un ambiente dove la diversità del lavoratore è assecondata ed integrata con la cultura aziendale si è notato come il benessere e la soddisfazione personale aumentasse, insieme allo spirito di gruppo. Questo benessere del lavoratore si traduce in maggior efficienza e l’impresa ne beneficia sia dal punto di vista economico che strategico. 

 

Ecco un elenco non esaustivo dei vantaggi riscontrati: 

 

L’accesso a nuovi gruppi di potenziali lavoratori: essere favorevoli ad includere personale con un background diverso amplia il bacino di scelta tra i lavoratori ed è uno dei motivi principali per la quale le aziende decidono di implementare il diversity management.

 

Maggiore motivazione ed efficienza: il dipendente che viene rispettato, tenendo in considerazione la sua diversità, e valorizzato è più motivato a dare il meglio di sé, aumentando sia a livello qualitativo che quantitativo il lavoro svolto e contribuendo ad aumentare complessivamente l’efficienza e la produttività dell’azienda. 

 

Migliori opportunità di mercato e maggior vantaggio competitivo: avere un forza lavoro diversificata consente di essere più sensibili ai bisogni dei propri interlocutori e clienti, capendoli meglio e quindi avendo un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza.  

 

Attrazione delle risorse migliori: un’impresa che sa accogliere le diversità ed è libera dai pregiudizi ha più possibilità di attrarre i talenti migliori e fare in modo che rimangano in azienda più a lungo. 

 

Riduzione dei costi: una forza lavoro soddisfatta ed integrata nel sistema organizzativo permette di ridurre i tassi di assenteismo.

 

Incremento della creatività e dell’innovazione: un mix di risorse umane, appartenenti a contesti diversi con un background diversificato, alimenta lo sviluppo e la creatività guidando l’innovazione dell’azienda, garantendone quindi la sopravvivenza. 

 

Maggiore flessibilità e migliore attitudine al problem solving: adottare il diversity management rende l’azienda più incline ai cambiamenti sia interni che esterni e permette di affrontarli in maniera più veloce e a costi più ridotti. Avere punti di vista diversi, contribuisce senza alcun dubbio ad un problem solving più efficace. 

 

Miglior reputazione e immagine aziendale: tutti i benefici elencati sopra hanno un effetto diretto sull’organizzazione e sull’immagine esterna dell’azienda. 

 

L’inserimento nel PNRR di un riferimento alla certificazione della parità di genere è l’ultima conferma di come la diversità e l’inclusione siano ormai temi fondamentali per le aziende. 

 

Saper gestire la diversità e l’inclusione dei lavoratori è ormai un requisito ineludibile sia per la produttività dell’azienda che per l’immagine dell’organizzazione. Molti fondi di investimento, ad esempio, sono molto attenti alle politiche di diversity management.

 

Il Diversity & Inclusion manager è un professionista delle Risorse Umane sempre più indispensabile per le aziende. TIM Management grazie alla sua rete di oltre 3000 manager, può offrire i migliori consulenti nel settore, in grado di valorizzare la diversità, di accelerare il processo di innovazione e sviluppo, di aumentare la redditività e la produttività aziendale. Tutto questo grazie alla profonda esperienza nel ruolo e nel settore di appartenenza che permette loro di  pianificare rapidamente le attività necessarie e più adeguate a raggiungere i risultati desiderati. 

 

 

 

 

Pmi e internazionalizzazione: ecco come affrontare inflazione e costi crescenti

Nonostante la situazione internazionale appaia abbastanza instabile con la guerra in Ucraina, la difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, l’aumento dei costi dell’energia e l’inflazione crescente, le PMI continuano a considerare l’internazionalizzazione come uno dei modi più efficaci per crescere e per aumentare i propri utili.

I segnali sono evidenti. Nonostante lo stop dovuto alla pandemia, le aziende italiane stanno aumentando l’export. L’Italia è il quinto Paese al mondo per surplus nel commercio estero, in rapporto ai beni importati, con più di 100 miliardi di saldo positivo. Nei primi tre mesi del 2022 l’export italiano è aumentato del 23 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021, con un aumento praticamente analogo, sia verso l’area Ue (+23,5%) che extra Ue (+22,2%).

Per affrontare l’internazionalizzazione è però necessario munirsi di strumenti all’avanguardia, essenziali per poter essere competitivi e conquistare il mercato. Ad esempio, le PMI devono sicuramente accelerare la trasformazione digitale per poter sviluppare nuovi canali di vendita in mercati fino ad allora inesplorati. 

Le piattaforme di vendita online hanno permesso di semplificare e di ridurre i costi delle tradizionali strategie di internazionalizzazione, basti pensare che per molte PMI lo sbocco in molti mercati esteri avviene proprio tramite queste piattaforme digitali.

L’e-commerce nel mondo B2B genera un volume di affari intorno ai 12 miliardi di dollari ed è previsto arrivare a 21 miliardi entro il 2027. In Italia sono 18 mila le piccole e medie imprese che vendono su Amazon e nel 2020 hanno segnato vendite all’estero per 600 milioni di euro con oltre 80 milioni di prodotti venduti.

Questo cambio di paradigma nel conquistare e nel commercializzare i propri prodotti e servizi nei mercati globali va a modificare la struttura stessa del mercato e dei suoi canali distributivi. I tradizionali distributori ed importatori perdono sempre più valore mentre le aziende di logistica e di spedizione guadagnano posizioni di sempre maggior rilievo. 

Anche i servizi finanziari vengono sempre più frequentemente integrati nelle piattaforme stesse. Il rischio di cambio valuta continua comunque ad esistere ma viene gestito con maggior semplicità e trasparenza ed a costi minori.

Il tasso di cambio è uno dei fattori da tenere più in considerazione quando si ha a che fare con le transazioni estere. Una cattiva gestione può facilmente logorare i margini dell’azienda rendendo poco profittevole l’intera operazione.

Il cambio è influenzato da fattori quali la politica, l’economia e la fiscalità, tutti fattori esterni al potere decisionale di un’azienda che però possono ricadere pesantemente sui propri fatturati e margini.

Ci sono tuttavia delle strategie a disposizione delle PMI per ridurre i rischi e limitare l’esposizione finanziaria da parte dell’azienda.

 

Pianificare i pagamenti e gli incassi

Organizzare e programmare i pagamenti durante l’anno prevedendo i futuri tassi di cambio ed i flussi monetari è un ottimo strumento per contenere il rischio, garantendo il mantenimento dei margini stabiliti nel piano. 

Prodotti a copertura del contratto 

Esistono degli strumenti ideali per le PMI che offrono trasparenza, versatilità e riduzione dei costi:

L’assicurazione del tasso di cambio: l’azienda può assicurarsi un tasso di cambio stabile in una specifica data o periodo di tempo garantendo la certezza al 100% sul prezzo alla quale verrà conclusa la transazione. 

Ordini di mercato: L’esecuzione automatica delle operazioni al fine di ottenere il miglior prezzo possibile. Si stabilisce in precedenza il limite alla quale si è disposti a vendere o acquistare e, solo in caso di raggiungimento di questa soglia, l’operazione viene eseguita.  

Piattaforme con esecuzione immediata 

Esistono piattaforme che consentono di effettuare le transazioni in tempi immediati o in poche ore con tassi di cambio competitivi, facilitando l’operazione per esportatori ed importatori. Inoltre è possibile ottenere conti di incasso in diversi paesi per facilitare le transizioni con agenti locali e ridurre così i costi e le commissioni.  

 

In passato l’espansione all’estero era possibile e praticata solo dalle grandi imprese che storicamente perseguono strategie di internazionalizzazione articolate e ben delineate. Le PMI cercavano nuovi sbocchi commerciali all’estero principalmente tramite le fiere di settore o specifiche missioni imprenditoriali oppure, più raramente, ricevendo richieste proattive da partner esteri che contattavano direttamente l’azienda.

Oggi non è più così. Utilizzare strategie di internazionalizzazione e strumenti adeguati è fondamentale per le PMI, soprattutto per ridurre i rischi ed i costi legati all’espansione all’estero. 

Avere un piano ben definito e strutturato permette di focalizzarsi su paesi con alto potenziale, senza perdere tempo in aree non fruttifere che non sono destinate a portare risultati nel medio o lungo termine.

Per attivare una strategia vincente di internazionalizzazione è fondamentale poter contare sul supporto di un consulente esperto che rappresenta sempre un valido investimento per espandere i mercati di sbocco e conseguentemente i profitti dell’azienda; questo è ancora più vero per le PMI che spesso si affacciano a nuovi mercati senza poter contare su una struttura di management interno con un’esperienza adeguata alle nuove sfide. TIM Management può offrire supporto adeguato alle PMI che affrontano l’internazionalizzazione, mettendo a disposizione consulenti qualificati con ampia esperienza nei mercati esteri, nel settore di competenza e nell’internazionalizzazione delle aziende. Questo senza appesantire la struttura con manager inseriti a tempo indeterminato e permettendo una crescita più veloce delle risorse interne che, lavorando a contatto con il manager esperto, acquisiscono rapidamente gli strumenti e le competenze necessarie alla gestione dei nuovi mercati.

Il pricing? Ecco perché lo deve gestire il top management

Il prezzo è un fattore sul quale molto spesso non si pone abbastanza enfasi all’interno delle aziende ed è invece determinante all’interno della strategia aziendale e per il conseguimento di una soddisfacente redditività del business. Gli incrementi di prezzo su un bene o servizio hanno normalmente una redditività maggiore di 3 o 4 volte rispetto ad un analogo aumento nei volumi di vendita. 

 

Le aziende che non delegano al reparto vendite e marketing la decisione dei prezzi, ma coinvolgono il top management nella formulazione della strategia di pricing, hanno un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza. 

 

Un’indagine di Premoneo, azienda specializzata nello sviluppo di software per il pricing e forecasting, ha rilevato come in un’azienda di medie dimensioni una crescita in volumi dell’1% porta ad un aumento dell’utile del 3,3%. Se invece si verifica l’aumento di prezzi dell’1% l’incremento sull’utile può portare a una crescita dell’utile fino a oltre l’11%.

 

Warren Buffet in merito al pricing ha detto che: “Se hai il potere di aumentare i prezzi senza perdere volumi a favore di un concorrente, hai un ottimo business. Se, invece, devi dire una preghiera prima di aumentare il prezzo di un centesimo, allora hai un pessimo business.” 

Ovviamente vanno contestualizzate le strategie relative al pricing, a seconda del settore e del modello di business di un’azienda. 

 

Hermann Simon, il maggiore esperto di pricing nel mondo, però nel 2017 affermava come nelle aziende dove il CEO è coinvolto nella definizione del pricing si verifica un impatto sugli utili fino a un terzo maggiore rispetto alle aziende dove il Ceo non interviene, dimostrando al tempo stesso quanto sia rischioso delegare le pricing strategies a personale con meno competenze. 

 

E’ un’ottima iniziativa incominciare ad introdurre il pricing come tema all’interno delle discussioni del top management, considerando l’impatto sull’andamento aziendale, unendolo alle classiche metriche già in uso. Se i top manager hanno ancora una predisposizione a focalizzarsi solo sulle vendite e sul fatturato occorre aumentare la loro sensibilità riguardo la marginalità.

 

I top manager devono affrontare un percorso articolato,  partendo dalla stesura di una strategia di pricing ed arrivando ad un sistema che gestisca e monitori al meglio la performance rispetto al prezzo praticato, anche utilizzando software ed intelligenza artificiale, che incrocino i dati interni ed esterni all’azienda ed indichino quando e come sia opportuno modificare il prezzo.

 

Rendere i C-Level partecipi delle decisioni riguardo il pricing, introduce il prezzo nella cultura aziendale unendolo alla strategia e al posizionamento di mercato, rendendo la strategia complessiva dell’azienda più omogenea e più compatta su tutti i fronti, sostanzialmente più efficace.

 

Mentre in molti altri ambiti aziendali, l’arretratezza tecnologica rappresenta un ostacolo, in tema di pricing si possono cominciare a mettere a frutto nuove strategie anche senza l’uso di strumenti specifici. La prima competenza da sviluppare per un CEO rimane la sensibilità riguardo il pricing. Si possono usare inizialmente fogli di calcolo o i sistemi ERP e successivamente investire in software più sofisticati ed in intelligenza artificiale. 

 

Può succedere che a livello operativo alcune figure del top management si rendano conto più facilmente dell’aggiustamento necessario in termini di pricing; figure come il CFO che hanno sotto controllo tutto il panorama finanziario dell’azienda sono spesso le prime a proporre un miglioramento in termini di margini di profitto attraverso un aggiustamento del pricing. Oppure può essere il Chief Technology Officer stesso a proporre soluzioni AI in ambito pricing e forecasting per efficientare i processi. 

 

Spesso non è razionale aspettare che l’input sia sempre bottom-up. 

E’ importante che l’imprenditore o il CEO abbiano sotto controllo il pricing aziendale e che incomincino in prima persona ad impostare un percorso per efficientare la strategia ed il monitoraggio del prezzo.

 

Molte aziende stanno introducendo ora figure come il Chief Pricing Officer, figure che si occupano di individuare il prezzo ottimale per ogni prodotto o servizio. 

 

TIM Management, grazie al vasto network di manager C-level del quale dispone, può aiutare nell’inserire una figura temporary in area finance per operare la pianificazione e l’implementazione di una strategia pricing adeguata, insieme a tutte le altre attività che possano contribuire a incrementare i margini e l’efficienza aziendale. 

A differenza di altre azioni di medio periodo, cambiare la strategia di pricing non richiede nessun cambio strutturale dell’azienda e per questo motivo si possono attuare i cambiamenti in breve termine. L’azienda ne beneficerà istantaneamente riscontrando possibilmente una marginalità maggiore e sicuramente acquisendo maggiore solidità.

 

La stretta relazione tra capitale umano e crescita economica

L’Italia già in fase pre-pandemica stava attraversando una fase di bassa crescita economica e bassa produttività, complice la mancanza di una serie di riforme necessarie per ammodernare il sistema, che oggi grazie al PNRR si spera di poter avviare. 

In uno studio condotto da Community Research&Analysis per Federmeccanica-Umana intervistando diversi imprenditori, è emerso che dopo la pressione fiscale e la burocrazia, alcune delle riforme più urgenti da attuare sarebbero inerenti alla tassazione sul lavoro, il cuneo fiscale, e allo scollamento della formazione scolastica rispetto alle esigenze delle imprese. 

 

E’ bene differenziare in macro categorie i due grandi meccanismi che si interfacciano tra loro: da una parte il sistema paese e dall’altra le imprese stesse. 

Riguardo il sistema paese, il tema principale riguarda la pressione fiscale ritenuta eccessiva dal 36,7% degli intervistati. Praticamente a pari merito con la burocrazia, ritenuta eccessiva dal 34,1%. Appena dopo però vengono il mercato del lavoro, troppo rigido secondo il 13,3% degli intervistati, ed un sistema formativo distante dalle necessità del sistema produttivo, secondo l’8.5%.

 

Scendendo nello specifico del mercato del lavoro, gli imprenditori segnalano l’esigenza di intervenire urgentemente sul tema fiscale. Oltre il 34% è d’accordo sulla diminuzione dell’aggravio fiscale sul lavoro, il cuneo fiscale di cui tanto si parla da anni ma che rimane il quinto più alto tra i Paesi Ocse: 46,5% nel 2021. 

Il 20,6% degli imprenditori è poi d’accordo nel migliorare il rapporto tra sistema formativo e produttivo ed il 14,9% vorrebbe più flessibilità riguardo l’assunzione del personale.

 

In sintesi, per attuare delle politiche sul mercato del lavoro efficaci secondo gli imprenditori, andrebbe abbassata la tassazione sul lavoro e ci vorrebbe maggiore sinergia tra la formazione delle scuole e le imprese. 

Mentre a livello di sistema paese le riforme sul lavoro erano percepite come prioritarie, ma in ordine secondario rispetto ad altre riforme, quando si focalizza l’attenzione sulle strategie delle singole aziende lo scenario cambia.

Nello studio condotto, le tre strategie che hanno raccolto il maggior consenso sono state: 

  1. l’investimento nel capitale umano (20,6%), 
  2. la diversificazione dei prodotti e dei servizi (20%) e 
  3. il miglioramento della tecnologia e l’innovazione (19,9%).

 

Investire nel capitale umano ha un ritorno esponenziale per l’azienda. 

Tanto più il capitale umano di un’azienda è valido, tanto più un’impresa si arricchisce ed mostra una spinta maggiore alla crescita. 

Molto spesso però la struttura stessa delle aziende ed i suoi limiti finanziari ne vincolano l’innovazione, la crescita e quindi anche l’investimento nel capitale umano.

In tema di produttività infatti, le grandi aziende Italiane sono tra le migliori, raggiungendo quasi i livelli della Germania. Il problema risiede nelle piccole aziende che rappresentano la maggioranza delle imprese italiane e il cuore del sistema paese. 

 

Le piccole aziende oltre a soffrire in termini di crescita e produttività, bloccano anche il mercato del lavoro non riuscendo ad inserire figure di alto profilo al loro interno, generando l’educational mismatch ovvero, il disallineamento tra il titolo di studio conseguito e la posizione lavorativa. 

 

Di base poi in Italia si investe in assoluto poco nella formazione essendo, l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi del debito pubblico supera quella per l’istruzione e non solo per i tassi di interesse più alti!

 

Questi due elementi fanno sì che ci sia il più basso numero di laureati, il 28% tra i 25 ed i 34 anni, rispetto alla media Ocse del 47%, e che molti di loro decidono di emigrare all’estero per avere opportunità di lavoro e carriera attraenti.

 

Nel confronto con gli altri paesi si vede come ci sia una forte relazione tra il reddito pro capite ed il livello di istruzione. Si calcola che nei paesi sviluppati un anno in più di istruzione possa aumentare la retribuzione del 10%. Ovviamente il rendimento è maggiore nei paesi in via di sviluppo e tende a diminuire nei paesi con i livelli di istruzione più elevati. 

Di base il mercato del lavoro è quindi un sistema complesso che necessita urgentemente di cambiamenti strutturali importanti. Con il PNRR, oltre allo sviluppo dell’industria 4.0, alla transizione energetica ed ecologica, si spera di poter riequilibrare il mercato del lavoro con la riduzione del cuneo fiscale ed introducendo condizioni migliori e salari più alti.

 

Nel frattempo però gli imprenditori possono e devono investire nel capitale umano con le risorse della quale dispongono, investendo nelle risorse migliori per poter rimanere competitivi sui mercati. 

Non sempre questo investimento deve appesantire il budget dell’impresa con assunzioni a tempo indeterminato, in funzioni che spesso non sono identificabili a priori come permanenti; un buon esempio di queste necessità sono tutte le figure legate alla digital transformation o al setup del monitoraggio dei valori ESG, ma anche, più banalmente, l’introduzione di un nuovo ERP di ultima generazione.

TIM Management può intervenire con successo in contesti di questo genere, offrendo dei manager ad interim, che portano competenze e know-how di alta qualità ad un costo temporaneo e inferiore rispetto all’inserimento a della figura manageriale a tempo indeterminato; inoltre gli interim manager aiutano l’organizzazione a crescere e a poter gestire le nuove necessità in autonomia, una volta che il temporary assignment sia concluso.